testimonianze

Questa sezione raccoglie le lettere e le prefazioni di amici e colleghi di Mario Scarpetta contenute nel volume “Mario Scarpetta – il sorriso e l’attore” curato da Pino Miraglia e Gianni Pinto e presentato al Teatro Mercadante di Napoli il 14 Novembre del 2005 nel corso della serata di commemorazione organizzata dal Teatro Stabile di Napoli diretto da Nînni Cutaia e dalla Prospet di Gianni Pinto.

Marisa Laurito

Mario sempre sorridente… simpatico! Mario ironico, Mario attore, Mario autore… Mario Scarpetta… discendente da una delle più importanti, amate e chiacchierate famiglie teatrali napoletane. Mario che ci ha lasciato troppo presto!
Il mio ricordo è molto presente e indelebile. Con Mario abbiamo iniziato insieme, debuttato nel grande “teatro di Eduardo” con Le bugie con le gambe lunghe, nel 1972.
Io, scritturata da Eduardo, dopo un ansiogeno provino e arrivata in compagnia, in qualità di comune giovane attrice, e lui… nipote di Eduardo De Filippo. Ma nel teatro di Eduardo, non c’erano sconti né per amici né per parenti. Il gelo, di cui poi lui, avrebbe parlato a Taormina, nella serata del suo testamento – gelo inteso come disciplina, professionalità, rigore, amore perseverante e unico per il teatro, magia e dolore – avvolgeva tutti noi.
Mario, da giovane, era già bravissimo, di grande talento e dotato della naturalezza e della verità che in scena appartiene solo ai grandi attori.
Il mio ricordo è di un compagno di lavoro che prendeva seriamente il mestiere di attore, ma che non si prendeva mai sul serio, e di un attore che, pur essendo napoletano, oltre all’amore per Scarpetta si metteva continuamente alla prova interpretando anche personaggi di testi di Marivaux, Beckett, Čechov, riuscendo sempre ad avere successo e portando il suo carattere e la sua naturalezza in scena.
Eravamo molto giovani e dotati di grande ironia, volevamo conquistare il palcoscenico… ma senza accanimento. Mario era provvisto di grande sensibilità amore verso l’umanità. Doti che spesso – e soprattutto oggi – scarseggiano. Ci manca come amico e come attore, se n’è andato via troppo presto, ma la gioia oggi, sicuramente e soprattutto, anche per lui che ci guarda, è assistere al successo di Eduardo Scarpetta. Nulla si ferma! Tutto prosegue, come “da copione!”. E la storia di una delle famiglie d’arte più importante per la nostra tradizione e la nostra cultura è ancora in tour per il mondo, e continua con evidente successo.
Io amo immaginare gli Scarpetta e i De Filippo, tutti insieme finalmente felici, scostare una nuvola come fosse un sipario, e guardare giù compiaciuti questo loro erede… Eduardo, che raccoglie consensi di pubblico, oggi, anche per loro.

Roberto Andò

Ho conosciuto Mario Scarpetta mentre girava a Cinecittà un film con Lina Wertmüller.
Abbiamo passato delle belle ore insieme, negli anni in cui c’era ancòra il gusto e la vitalità delle notti romane. Lo ricordo come un uomo divertente, ironico, con l’accento di un’ombra malinconica.
A vent’anni dalla sua scomparsa è sempre più forte il rammarico per la perdita di un artista che avrebbe dato ancora tanto alle nostre scene.
Erede di una delle famiglie teatrali più rappresentative della tradizione napoletana, Scarpetta ha manifestato il suo talento sia nel repertorio del bisnonno Eduardo, sia in quello contemporaneo.
La sua particolare fisionomia, la naturalezza espressiva, l’attitudine a una comicità elegante, misurata e a volte dolente, gli hanno permesso di approdare a esperienze che ne hanno evidenziato e valorizzato le qualità.
Sono ancora vivide nella memoria le sue interpretazioni de Le false confidenze di Marivaux, accanto a Toni Servillo, di Uscita d’emergenza di Mario Santanelli, con la regia di Bruno Cirino, di Aspettando Godot di Beckett, insieme al cugino Luca De Filippo e a Gianfelice Imparato, dei Dieci comandamenti di Viviani con la regia di Mario Martone. E altrettanto preziose sono le sue incursioni cinematografiche, a partire dal piccolo ruolo in Amici miei di Mario Monicelli fino alle esperienze con Lina Wertmüller, Elvio Porta e Paolo Virzì, ulteriori tasselli d’una carriera che anche su questo fronte prometteva altri successi.
Il riallestimento della bella mostra, realizzata nel 2005 al teatro Mercadante in occasione del primo anniversario della sua morte, vuole essere un affettuoso – e doveroso – omaggio a un grande artista che non può essere dimenticato. Mario Scarpetta, testimone di un grande passato e interprete inquieto del nostro tempo.

Giulio Baffi

Comico, certamente Mario Scarpetta è stato uno straordinario attore comico. Nell’accezione nobile però. Era cioè un comico non plebeo. Direi anzi che c’era in lui una comicità fatta di grande eleganza. Perché era uno che conosceva la misura rigorosa, e il confine che separa la risata dal sorriso, e il sorriso dalla malinconia, o dalla cupezza ansiosa dell’angoscia. E sapeva praticare tutto questo assai bene. Solo che la sua scelta poi privilegiava l’allegria. Volto mobile, sguardo acuto, intuito eccezionale e una grande capacità di stabilire con il pubblico quel rapporto preferenziale che non ti tradisce e ti fa battere il cuore. Era insomma un eccellente attore. Aveva sedimentato in sé le molte generazioni teatrali che lo avevano preceduto.
Visibili somiglianze, precisione di gesti, sorrisi inequivocabili, passioni dichiarate, simpatie non nascoste, e una “scuola di palcoscenico” d’eccezione, assimilata fin da giovanissimo, gli consentivano continui, improvvisi e imprevedibili scarti d’invenzione.
Teatro, cinema, televisione, a leggere i titoli della sua carriera, si resta sorpresi dalla quantità e differenza di scritture con cui Mario Scarpetta si è misurato. Non c’è insomma soltanto il teatro napoletano, il grande teatro “di famiglia” di Scarpetta, De Filippo e Viviani, a cui ha dedicato energie smisurate. Molti altri autori e registi lo hanno visto attento protagonista. Certo la sua “passione” è stata proprio il gran patrimonio scarpettiano. Non credo l’abbia prediletto per facile scelta, ma piuttosto, e ne sono certo, come avesse assunto su di sé una speciale, e caparbia, “missione”. Mario Scarpetta voleva insomma, tenacemente, ricollocare le commedie di Eduardo e Vincenzo Scarpetta al posto che, giustamente, pensava spettasse loro.
Centrale cioè all’interno della produzione fiorita tra l’Ottocento e il Novecento. E lo fece con magnifica ostinazione, dedicandovi energie e intelligenza. Ogni anno una o più commedie da rappresentare. Lasciando ad altri il rischio di riletture, manipolazioni, invenzioni bizzarre ed eretiche. Lui ha preferito lavorare invece “secondo tradizione”, come per una rigorosa disciplina della rappresentazione da comunicare, da imporre, ad altri oltre che a se stesso.
Mario Scarpetta è stato insomma il custode di un temperamento teatrale che a volte abbiamo invece visto come fosse una sorta di “autocondanna” piuttosto che una “scelta”. Tanto forte è stato per lui il “richiamo” di quel sorridente teatro. Mai sottovalutato quindi, mai scimunito o superficiale.
Attento e pronto a rispondere alla “chiamata” dei tanti che l’hanno scelto per le loro Compagnie, ha dato prove d’attore magnifiche, a cui possiamo ripensare con vera gioia. Eduardo, Roberto De Simone, Lina Wertmüller, Giuseppe Rocca, Carlo Giuffrè, Luca De Filippo, Stefano Satta Flores, Toni Servilio, Mario Martone, lo hanno visto disponibile, curioso compagno di viaggio in spettacoli da ricordare.
Mario Scarpetta era attore capace di comunicare allegria in scena con un semplice gesto, con uno sguardo, con un sorriso.
Un dono di pochi. Il teatro “di famiglia” gli consentiva questo regalo al suo pubblico. Eppure penso sia riduttivo parlare di lui come “attore popolare napoletano”, rinchiudendolo (o esaltandolo) in una geografia culturale tanto ricca quanto definita.
Quella del “teatro napoletano” cioè. Che a volte è davvero una prigione da cui è difficile fuggire. Sia pure bella. Anche se esaltante e nobile. Mi è capitato di rimproverarlo con amichevole affetto, accusandolo di cedere alla sua allegra gioia di lavorare con una parte della sua bravura. L’avrei voluto vedere insomma affrontare prove più “difficili”, a cui si è sottratto non per paura o per pigrizia ma piuttosto per allegria. Allegria, necessità prima del suo talento e della sua vita di attore e di uomo. Troppo breve purtroppo per concedergli di misurarsi anche con quella parte del teatro in cui, ne sono certo, si sarebbe avventurato con non inferiore bravura.

Isa Danieli e Mario Scarpetta in Lu curaggio de nu pompiere napulitano foto Marcello Norberth
Isa Danieli

Sopracciglia inarcate, parlanti e imperiose, bacino basso e didietro importante: uno Scarpetta insomma, per colore, per memoria, per calore e talento, per generosa testardaggine.
Attore di grande qualità che giovanissimo si accostò alla monumentale bravura del più famoso parente De Filippo. Dopo importanti frequentazioni, da De Simone a Wertmüller, volle tenere in vita la tradizione scarpettiana, fondando una sua compagnia, rinunciando così a mettere in gioco, da scritturato, la sua grande bravura.
Da capocomico, se pur giovane, si mescolò al talento di attori come Anatrelli e Dolores Palumbo. Ci ha lasciato troppo presto Scarpetta (così lo chiamavano tutti anche in intimità), mutilandoci di uno sguardo sornione e intelligente, tuttavia sapiente, a suo modo, sul teatro di tradizione e contemporaneo.
Ma mi manca di più la risata fragorosa e contagiosa, che scaldò la nostra amicizia nelle sere d’inverno come in quelle d’estate, risata che smuoveva l’edera del ricordo intorno alla quale è annodato un sorriso, speciale, che lui da dove sta, sicuramente sa riconoscere.
Ciao, Scarpetta.

Isa Danieli

Sopracciglia inarcate, parlanti e imperiose, bacino basso e didietro importante: uno Scarpetta insomma, per colore, per memoria, per calore e talento, per generosa testardaggine.
Attore di grande qualità che giovanissimo si accostò alla monumentale bravura del più famoso parente De Filippo. Dopo importanti frequentazioni, da De Simone a Wertmüller, volle tenere in vita la tradizione scarpettiana, fondando una sua compagnia, rinunciando così a mettere in gioco, da scritturato, la sua grande bravura.
Da capocomico, se pur giovane, si mescolò al talento di attori come Anatrelli e Dolores Palumbo. Ci ha lasciato troppo presto Scarpetta (così lo chiamavano tutti anche in intimità), mutilandoci di uno sguardo sornione e intelligente, tuttavia sapiente, a suo modo, sul teatro di tradizione e contemporaneo.
Ma mi manca di più la risata fragorosa e contagiosa, che scaldò la nostra amicizia nelle sere d’inverno come in quelle d’estate, risata che smuoveva l’edera del ricordo intorno alla quale è annodato un sorriso, speciale, che lui da dove sta, sicuramente sa riconoscere.
Ciao, Scarpetta.

Isa Danieli e Mario Scarpetta in Lu curaggio de nu pompiere napulitano foto Marcello Norberth
Luigi De Filippo

Ora che purtroppo tu non ci sei più restano solo ricordi e noi, di ricordi in comune, non ne abbiamo molti.
Questa nostra professione (la chiamo così perché noi, gente seria, il Teatro lo abbiamo sempre fatto da professionisti appassionati) non sempre unisce, ma assai spesso divide, anche i consanguinei.
Noi ci siamo frequentati poco. Non abbiamo mai lavorato assieme. Una volta però, da spettatore, ti ho applaudito con sincera convinzione. Sapevo delle tue belle prove come attore affermato di grande tradizione napoletana, ma volli venire a vederti in un’opera lontana dal tuo consueto repertorio. Accettando l’invito di mio cugino Luca, venni tre anni fa al teatro Romano di Benevento per la “prima” di Aspettando Godot , il famoso dramma di Samuel Beckett dove si racconta che l’attesa che qualcuno venga e cambi il nostro destino è vana oggi, lo sarà domani, sempre. Ricordo che qualche ignorante tra il pubblico storpiava il titolo trasformandolo in un improbabile «Aspettando Totò»!
Ma devo qui ricordare che l’interpretazione del tuo personaggio fu veramente straordinaria. Ti feci i miei più sinceri complimenti di vero cuore, soprattutto perché avevi dato una bella prova di te in un genere tanto lontano da quello che di solito recitavi. Gli Scarpetta e i De Filippo hanno scritte pagine bellissime nella storia del nostro Teatro, aggiungiamo anche questa mia paginetta per ricordare e celebrare un Artista come te che sulla scena ha dato tanto, ma in cambio ha ricevuto molto meno di ciò che avrebbe meritato in vita.

Ricordandoti sempre con stima e affetto,
Luigi

Cupido scherza e spazza (2004) foto Rigotti
Lettere a Mario Cupido scherza e spazza (2004) foto Rigotti Luigi De Filippo
Giulio De Martino

A volte ricordare una persona precocemente scomparsa riesce ad attenuare il senso di vuoto e di smarrimento generato dalla consapevolezza della perdita irreparabile.
Mario Scarpetta, attore e commediografo stimato e amato a Napoli, è stato anche lui uno studente di liceo: anche lui al liceo Umberto, anche lui nel corso G – il mio – negli anni dal 1967 al 1972 (uno prima di me). Il suo genio teatrale – retaggio di famiglia, per lui pare ovvio attestarlo – si esprimeva allora semplicemente nell’ironia e nella comunicativa coinvolgente. In quei riti vagamente goliardici, che accompagnavano la vita liceale di un corso tutto maschile, Mario portava la vena dello stile commediale, un punto di farsesco, ma anche di erudito, come nella parodia della cultura libresca e della grammatica greca e latina che erano gli ingredienti dell’atellana del bravo e irrequieto studente di allora.
I nostri modesti carmina burana infatti vertevano tutti intorno a un certo patriottismo di corso (inni, cantate, marce…) e alla satira affettuosa della figura dei nostri amatissimi professori e delle loro fondamentali discipline. Era suo il «Papelòs ò Kakòs» con cui appellavamo a fine d’anno scolastico il bravissimo professor Raffaele Greco; era sua la garbata parodia di «Vittorio dal baffo verde», il gentile e paterno professor Savastano che ci recitava e commentava alla luce di De Sanctis, Flora e Sapegno i versi di «padre Dante». Ed era suo il Canto – reputato apocrifo – di «Farinata dell’Umberto», dedicato al filosofo Lamberto Maccioni, traduttore di Euclide e docente di filosofia quanto mai simpatico e conversevole. Ricordo soltanto i versi inziali che Mario Scarpetta declamava, con mimica e gestualità travolgenti, nella recita-spettacolo che recava i saluti di prima dell’estate ai professori:
«O Tosco, che vai per l’Umberto dolente, sì parlando strevezo…».
Era appena comprensibile l’allusione al fiorentino stretto in cui si esprimeva allora la divina favella del professor Maccioni, per il quale un banale cassino era una ben più seria «cimosa» e l’invito rivolto a uno studente a uscire presto dall’aula per non disturbare oltre, si compendiava in un imperioso «porta!».
Caro Mario, in una generazione di ragazzi talentuosi e ambiziosamente adulti hai portato il sapore senza tempo della giovinezza sfuggente e l’amore non sempre confessato per l’erudizione classica che era croce e delizia per ognuno di noi.

Geppy Gleijeses

Credo si debba sfatare il mito delle grandi generazioni degli attori del passato e della povertà di talenti dei tempi nostri. Oggi c’è nel Teatro napoletano (e non solo) una quantità notevole di buoni comprimari, di ottimi caratteristi, di giovani promettenti; e ci sono anche alcuni grandi attori.
Certo, quando un destino cinico e baro ti priva di uno dei migliori, la statistica e il bilancio di una generazione rischiano di perdere significato. Quanti attori come Mario Scarpetta nascono in una generazione? Pochissimi, si contano sulle dita della mano. Oltretutto Mario era un purosangue – figlio degli Scarpetta, dei Viviani e dei De Filippo – che non aveva tradito le attese, con un pedigree nobilissimo.
Purtroppo spesso il grande purosangue ha i garretti fragili e Mario, nel suo fisico forte e gioioso, nel suo carattere apparentemente e inguaribilmente dissacrante, esilarante e al limite del cinismo, nascondeva al contrario, una sensibilità eccessiva, una vulnerabilità affettiva che erano il segno di una grande capacità di amare ma anche il tallone di Achille di un uomo dolce e buono.
Ci conoscemmo nel ‘72, entrambi stavamo per terminare il liceo classico e la sua classe dell’Umberto decise, con il professor Greco, di mettere in scena, per pura passione filodrammatica, Le nuvole di Aristofane. I ragazzi di quella classe dell’Umberto, oltre a Mario, i miei cari amici e ora grandi professionisti in altri campi, Francesco Barra Caracciolo, Riccardo Sgobbo, Raffaele de Lutio e altri, si chiesero: «Chi fa più casino a Napoli fuori dall’Umberto?». Il mio nome uscì in modo prepotente e io fui accolto come “oriundo” (ero al Pontano) in quella gioiosa e scalcagnata compagnia.
Io interpretai Tirchippide e Mario era mio padre Lesina. Lo spettacolo, qualcuno lo ricorderà, fu un meraviglioso, adolescenziale successo. Fu il debutto assoluto di Mario e mio e di tutti gli altri compagni. Lo rappresentammo, per chi ama le curiosità logistiche, nella palestra della Ravaschieri che non esiste più, e all’istituto Nazareth (al grido di «Guaglio’, jamme miez’ ‘e ffemmene!»).
Nacquero grandi amicizie, amori improvvisi, passioni profonde ed emozioni insuperate, quelle che solo il palcoscenico può darti. Ma, soprattutto, si palesarono due vocazioni irresistibili: quella di Mario e la mia. Io dovetti lottare contro la mia estrazione borghese e la destinazione alla Giurisprudenza che mio padre aveva immaginato per me; Mario era figlio d’arte e non doveva sfondare muri, aveva diciotto anni, talento e simpatia. Il grande Eduardo, per quelle strane combinazioni della vita, chiamò nella sua Compagnia tutti e due. Mario andò; io, soffrendo come una bestia, rinunciai e mi iscrissi all’Università.
Che successe poi? Mario cominciò la sua carriera alla grande, viveva a Roma e io, ospite di mia sorella nella Capitale, lo andavo a trovare spesso.
Poi accadde qualcosa che probabilmente gli cambiò la vita e segnò il suo destino: si innamorò perdutamente, come solo un virgulto diciottenne può fare, di una donna meravigliosa, anch’essa attrice, più grande di lui.
Lei lo lasciò quasi subito e Mario cominciò a bere (e quel vizio quanto lo ha pagato!), girando i bar e le osterie di Roma, affogando dolore e delusione, soffrendo come un pazzo.
Si affacciava alla vita, ma era troppo indifeso, troppo impreparato, vulnerabile come un purosangue.
Quanto soffrivo della sua sofferenza. Avevo lasciato Mario come un fresco diplomato pieno di vita e ritrovavo un ragazzo cresciuto troppo in fretta, ferito come una figura di Dostoevskij e che si comportava quasi come un personaggio di Bukowski.
La tempesta passò, ci furono altri amori ben più importanti, i figli, tanti successi.
È rimasto, attaccato allo scoglio di Napoli come una patella e Napoli, come dice La Capria, «o ti ferisce a morte o ti addormenta».
Avrebbe meritato ribalte ancora maggiori e occasioni più degne del suo straordinario talento che, soprattutto dopo i trent’anni, cresceva inarrestabile.
Abbiamo lavorato ancòra insieme due volte, l’ultima nel ‘94 in Vendetta trasversale di Giorgio Prosperi, con la mia regia.
Come ci divertivamo insieme in scena e fuori, con la stessa “capa fresca” di ventidue anni prima, fianco a fianco, con la gioia di ritrovarci ogni tanto e la promessa di stare insieme sempre più spesso.
Forse, quando partii per fare il mio mestiere nel ‘77 ero più forte del mio fratello in arte, forse quei cinque anni che allora mi bruciavano sono stati la mia fortuna… ma quanto mi manchi, Mario.
Volevamo fare Scarfalietto insieme. Lo farò e te lo dedicherò. Certamente un giorno reciteremo ancora insieme in quella commedia di Aristofane con cui debuttammo. Il titolo è una garanzia: Le nuvole…

Lettere a Mario_Geppy Gleijeses
Mario Martone

Ho corteggiato Mario Scarpetta come mai nessun altro attore o altra attrice.
Mi dava ‎appuntamento al bar Amadeus tra le undici e mezzogiorno, io continuavo a spiegargli perché ‎non potevo mettere in scena I dieci comandamenti di Viviani senza di lui e regolarmente lo ‎convincevo. Ma poi regolarmente ricevevo la sua telefonata in cui mi diceva che aveva la ‎compagnia, che non poteva legarsi, che insomma non poteva farlo e io da capo a chiedergli di ‎incontrarci, e così rieccoci al bar Amadeus.
Siamo andati avanti un bel po’. Alla fine lo convinco.
Mario si presenta il primo giorno di prove alla Sala Italia a corso Garibaldi (a due passi dal ‎Lavinaio, luogo ideale per affrontare quel testo), aveva gli occhiali scuri, non stava bene, ‎nonostante questo fa una prima lettura straordinaria.
Ma forse già l’indomani – non ricordo – ‎comunque sùbito, viene ricoverato in ospedale, tra lo sgomento di tutti noi.
Andiamo in ‎ospedale, i medici sono drastici: sarà lunga, deve riposare, non potrà tornare in compagnia.
Non mi arrendo, qualcosa mi dice che, poiché non sarebbe giusto, non deve accadere, bisogna ‎crederci. Non lo sostituisco con un altro attore.
Raccolgo la compagnia, e stiamo parlando degli ‎straordinarî attori che avevo coinvolto, da Nello Mascia a Gianfelice Imparato, da Salvatore ‎Cantalupo a Marco Manchisi a Ciro Capano e Danilo Rovani (per dire solo della parte maschile). ‎«Siete disponibili a interpretare tutte le sue parti (il testo era diviso in episodi) con l’accordo ‎che, se Mario tornerà, le riprenderà integralmente?» Tutti accettarono, e sono grato in ‎particolare a Nello e a Gianfelice che impararono a memoria, provarono e recitarono la gran ‎parte dei personaggi previsti per Mario.
Mario tornò. Dopo due mesi, a Roma, al teatro Valle ‎dove lo spettacolo stava per debuttare, era in perfetta forma, risanato completamente. Imparò ‎in un battibaleno battute, azioni, tutto, andò in scena come un leone, ma chi legge queste ‎righe avrà visto almeno la ripresa televisiva dello spettacolo, non c’è bisogno che io lo descriva. ‎Un’interpretazione indimenticabile.
Andammo avanti due stagioni nei teatri più importanti, fu ‎dovunque un trionfo, anche al Piccolo di Milano (dove era stato Ronconi a imporre lo ‎spettacolo in cartellone, a dispetto dell’eterno problema della difficoltà della lingua di Viviani ‎fuori Napoli).
A fine tournée Mario, che ormai mi voleva assai bene, mi fece dei doni ‎dall’archivio Scarpetta. Ne fui felice e li misi tra i miei libri e le mie carte.
Vent’anni dopo – Mario ‎non c’era più – ho cominciato a lavorare a un film su Eduardo Scarpetta, Qui rido io. Non un ‎biopic, ma un film sul periodo della sua vita in cui scrive e mette in scena Il figlio di Iorio ‎scatenando un putiferio leggendario. A un certo punto mi viene in mente che Mario mi aveva ‎dato delle cose dall’archivio di famiglia, non mi ricordavo di che si trattasse, le cerco e alla fine ‎le trovo, e che cos’erano? Una copia del copione manoscritto del Figlio di Iorio e, oggetto ‎pressoché unico e preziosissimo, il programma di sala dello spettacolo. Una cosa da brividi.
Nello scrivere la sceneggiatura mettevo a fuoco il personaggio destinato a essere l’antagonista ‎in seno alla famiglia, ossia il figlio Vincenzo. Così, accanto a Toni Servillo che interpretò ‎Eduardo, chiamai Eduardo Scarpetta, il figlio di Mario, a interpretare Vincenzo. Me lo ricordavo ‎bambino ai tempi dei Dieci comandamenti e adesso aveva già fatto un film con me, Capri-‎Revolution, ma questa volta il ruolo era importante e Eduardo finì per vincere il David di ‎Donatello. Quella sera ci siamo abbracciati piangendo nel pensare a Mario.
È retorico dire che ‎l’arte di un grande attore vivrà per sempre? Non è retorico, è vero, e quanto è vero per Mario ‎Scapetta.

Nello Mascia

Ciao Mario,
mi è stato chiesto, in occasione di questo ventennale, di scrivere qualcosa in tuo ricordo.
Il fiato banale della retorica già mi soffia sul collo.
Allora ho pensato di farti leggere una cosa che scrissi quando tu e io andammo, come spesso accadeva, al San Paolo.
3 novembre 1985. Napoli – Juventus.
Il destino ci regalò qualcosa di memorabile.
Il calcio di punizione più bello della storia del pallone.
E noi eravamo lì. Eravamo presenti. Tu e io.
Una grande indimenticabile emozione vissuta insieme.
Leggila, ti farà piacere ricordare quel pomeriggio.
E, se lo incontri, falla leggere anche a Diego.

TANTO FACCIO GOL LO STESSO
di NELLO MASCIA
Dialogo immaginario per una immaginaria sceneggiatura fra due tifosi che commentano dal vivo la punizione più bella della storia del calcio.
Immaginario fino a un certo punto, perché quel giorno io e Mario Scarpetta al San Paolo c’eravamo davvero.
3 novembre 1985. Stadio San Paolo, Napoli. Esterno giorno.
NELLO – Oggi mi sento che succede.
MARIO – Sì, pure io.
NELLO – Loro vengono da otto vittorie di fila, sono primi in classifica.
MARIO – Ma nuie tenimmo a Diego, lo vuoi capire o no? Lo vuoi capire ca tenimmo il più forte giocatore del mondo?
NELLO – Hai ragione. E poi prima o poi questi devono pure perdere o no?
MARIO – E certo.
Passiamo l’ingresso e saliamo le scale dei distinti. Tutto pieno. Qualche posto sul lato destro, verso la Curva B. Andiamo.
NELLO – Mamma del Carmine, che freddo.
MARIO – Ieri era scirocco, oggi ‘stu gelo.
NELLO – Mi sa che piove.
MARIO – Mi sa che vinciamo.
(I giocatori escono dagli spogliatoi ed entrano in campo)
NELLO – Eccoli qua. Oh, oh, Platini. Cabrini. Scirea.
MARIO – Il 7 chi è?
NELLO – Mauro.
MARIO – Me sta antipatico.
NELLO – Pure a me.
MARIO – (esultante) ‘O ‘ih ccanno! ‘O ‘ih!
NELLO – Mamma mia quanto è bello. Bello! Lo sgorbio divino come dice Brera.
MARIO – Brera nun capisce niente! Diego è bello!
(La partita ha inizio)
NELLO – Stiamo attaccando sempre. Ma niente.
MARIO – La difesa loro è quella che è.
NELLO – Azz’, accummencia pure a chiovere. Arape ‘o ‘mbrello.
MARIO – (esegue)
Fine primo tempo.
NELLO – Io me ne andrei a casa. Fa friddo, chiove. ‘O Napule nun segna.
MARIO – Addo’ vaje. Aspe’. Ca succede.
(La partita procede)
MARIO – Fallo! Rigore!
NELLO – Rigore! (si stropiccia le mani)
MARIO – Che te dicevo? Aspetta!
NELLO – Ma che fa? Punizione a due?
MARIO – Ma chiste so’ mariuole overo. Punizione a due in area, ma quando mai s’è visto.
NELLO – Quello Scirea l’ha atterrato a Bertoni, nettamente!
MARIO – Ca po’ Scirea, ‘stu grande gentiluomo! Quando deve dare mazzate, dà mazzate ‘a cecato.
NELLO – Chiste so’ nummere! Ma come? Punizione a due in area.
MARIO – Chi è l’arbitro?
NELLO – Redini.
MARIO – (urla fra gli urli) Curnutone!
NELLO – Ma che fa Diego? Diego ha preso la palla. Vuole tirare lui.
MARIO – Ma sta a quanto? Dodici metri dalla porta? (compiaciuto) Chisto è proprio nu pazzo!
NELLO – Oh, ma la barriera? Non sta manco a cinque metri. Arbitro, fai rispettare la distanza!
MARIO – (urla fra gli urli) Curnutone!
NELLO – Ma guarda a Diego. Tutti a protestare e lui niente. Ha preso il pallone, l’ha messo a terra nell’area di rigore e aspetta con calma.
MARIO – Beato a lui che è così calmo! Sembra che vuole tirare da lì. Con la barriera nemmeno a cinque metri di distanza? (compiaciuto) Chisto è proprio nu pazzo!
NELLO – Guarda, sta parlando con Pecci. Gli sta dicendo: «Passamela un poco poco indietro».
MARIO – E Pecci che lo prende per pazzo: «Diego, da qui la palla non passa!».
NELLO – E lui: «Tu toccala un poco poco indietro e non preoccuparti». Questo sta dicendo.
MARIO – Oh, oh… Palo ‘e fierro è scatenato contro gli juventini e contro l’arbitro.
NELLO – L’arbitro allarga le braccia. Come a dire: «Che devo fare? Lo vedi chi c’è in barriera? Scirea, Cabrini, Platini. Chi glielo dice a quelli?».
MARIO – (urla fra gli urli) Curnutone!
NELLO – Diego si avvicina a Bruscolotti e lo calma. Vedi che dice?: «Tranquillo: tanto faccio gol lo stesso.».
MARIO – Che dice?
NELLO – «Tranquillo: tanto faccio gol lo stesso.».
MARIO – Si’ sicuro? Dice: «Tranquillo: tanto faccio gol lo stesso.»?
NELLO – Sicuro.
MARIO – (compiaciuto) Chisto è proprio nu pazzo!
NELLO – Ieri Tacconi ha dichiarato spavaldo a tutti i giornali che Diego non gli avrebbe mai fatto gol su punizione. Vediamo.
MARIO – L’arbitro fischia, Vediamo.
NELLO – Oh, oh, Scirea e Cabrini sono avanzati ancòra. Mo’ stanno a due metri. Arbitroooo!
MARIO – (urla fra gli urli) Curnutone!
NELLO – È impossibile, impossibile, impossibile…
Diego tira. Anzi no. Non tira, accarezza. È un istante di infinito. La palla si alza lenta, supera le teste juventine, poi si abbassa come se fosse accompagnata da una benevola mano celeste ed entra proprio lì, nell’angolino alla sinistra di Tacconi.
MARIO – GOOOL!
NELLO – GOOOL!
MARIO – (urlando di felicità) Ma come ha fatto? Come ha fatto? Ma da quella posizione lo spazio della porta che vedeva era un rettangolino di un metro.
MARIO – GOOOL!
NELLO – GOOOL!
Ci abbracciamo zompando pazzi di felicità. Zoom all’indietro fino a inquadrare tutto lo stadio che urla e zompa insieme a noi.

Renato Nicolini

Il ricordo di Mario Scarpetta porta con sé un modo tutto particolare di fare teatro, dove hanno ancòra importanza la tradizione familiare, la conoscenza e il dialogo con la cultura del pubblico, in una parola il buon sapore dell’Artigianato invece del sapore – un poco falso, un poco simulato, un poco clonato, sicuramente troppo pretenzioso – dell’Arte.
In questo senso, con Mario Scarpetta è morto il vero erede della tradizione teatrale napoletana nella linea Scarpetta-De Filippo, quella che si difendeva dall’assimilazione piccolo borghese anche conservando tenacemente il proprio statuto di tribù a parte, che ha origine da una vita consumata in camerini non sempre riscaldati, in teatri e in tournées impossibili, in amori furibondi e pranzi di difficile digestione, con la bottiglia di vino che poteva finire per presentarsi come la fonte principale di calore e di tenerezza, o almeno di temporaneo rifugio dalle durezze della vita.
Mentre ancòra vivevo a Napoli, si sparse la voce che Carlo Cecchi aveva l’abitudine di passare tutte le sue sere napoletane al teatro Totò, da poco aperto, per vedere un attore, Mario Scarpetta. Con Marilù Prati (che con Mario Scarpetta aveva recitato in Na Santarella di Scarpetta, con la regia di Eduardo) andammo così a vederlo.
Lo spettacolo mi pare fosse La banda degli onesti, un omaggio a Totò tratto dal film di Camillo Mastrocinque.
Mario, che – confesso – non avevo ancòra mai visto in scena, mi parve un attore straordinario. Aveva fatto la sola cosa che si potesse fare per reggere il confronto con Totò, una presenza di cui la fortuna televisiva giustamente perdurante dei suoi film impedisce di parlare al passato. Aveva scartato ogni forma di imitazione e recitava la sua parte senza alcun complesso. Arrivava così naturalmente là dove Carlo Cecchi arrivava con qualche sforzo, come un punto di arrivo, mentre per Mario era un istintivo punto di partenza. Dire le proprie battute in tutta naturalezza, senza forzature psicologistiche, senza pirandellismi o manierismi d’alcun genere. Così Mario ricreava, quasi senza accorgersene, la magia del teatro, che consiste essenzialmente nella capacità dell’attore di essere in sintonia con l’universo effimero, ma che deve sembrare eterno fino al termine della rappresentazione, cui il suo personaggio appartiene.
Mario Scarpetta fu scoperto – dopo quello spettacolo – anche dal teatro d’autore. Lo ricordo ne I dieci comandamenti di Raffaele Viviani, testamento spirituale di Mario Martone, costretto dalle beghe del potere politico a lasciare la direzione del Teatro di Roma. Mario Scarpetta aveva in quello spettacolo qualcosa di più della funzione di un attore.
Era contemporaneamente il testimone della vitalità della tradizione, a cui Martone si accostava con rispetto, senza piegarla – e come avrebbe potuto? – alla propria maniera, ma piuttosto incastonandola, come una gemma preziosa, al suo interno. Da quel dialogo tra innovazione e tradizione, in cui Scarpetta finiva in qualche modo per rappresentare simbolicamente l’autonoma vitalità del testo di Viviani rispetto alla stessa messa in scena, nasceva ogni sera qualcosa di straordinario.
Addio, Mario, e grazie di tutto questo, lo conserveremo il più possibile nella nostra memoria.

Manlio Santanelli

Conoscevo Mario Scarpetta da molto tempo e ciò, paradossalmente, mi rende più difficile tracciare in poche righe un profilo della sua personalità e del nostro rapporto.
Mi soffermerò, pertanto, su un mio fugace incontro con lui (ma chi ha sentenziato che l’intensità di un incontro è proporzionale alla sua durata?).
1986, teatro Diana. Si è chiuso da qualche istante il sipario sulla “prima” napoletana di Regina Madre, quando ci incrociamo sul palcoscenico. Una vigorosa stretta di mano, niente di più.
Ma il suo sguardo lustro e la sua espressione solidale tradiscono un’emozione che nessuna parola potrebbe esprimere.
E mi sembra particolarmente felice della serata, cosa rara, se non esclusiva, in un ambiente incline a nutrirsi, più che dei propri successi, degli insuccessi altrui; salvo, poi, a sopraffarti di elogi di circostanza.
Perché, a conti fatti, l’umanità può annoverare, accanto alle altre innumerevoli distinzioni che si adoperano a suo riguardo, anche quella tra uomini e uomini di circostanza.
E Mario Scarpetta era senza dubbio un uomo.

Lettere a Mario Manlio Santanelli
Eduardo Scarpetta

Papà per me non se n’è ancora andato e forse mai se ne andrà, ha inciso e continuerà a incidere sulla mia vita e sulla mia carriera.
Nell’Amica geniale, i personaggi adulti, cioè il mio e quello degli altri ragazzi, uscivano nel terzo e nel quarto episodio, mandati in onda insieme il 4 dicembre, il giorno del compleanno di mio padre.
Carosello Carosone, film che mi ha cambiato la carriera, non avremmo dovuto girarlo tutto di fila perché io avevo da girare anche la seconda stagione dell’Amica geniale, ma alla fine si decise di non interromperlo e di girarlo tutto. L’ultimo giorno di set capitò di 14 novembre, la data della morte di mio padre.
Qui rido io, il film con cui io ho vinto il David di Donatello, nasce perché Mario Martone, anni fa, ritrovò il manoscritto originale andato in tribunale de Il figlio di Iorio di Eduardo Scarpetta.
Papà c’è, papà è qui.
Io forse gli devo più adesso di quanto lui mi abbia dato in vita.
Grazie.

Eduardo Scarpetta nello spettacolo Filumena Marturano regia Liliana Cavani (2016) foto Tommaso Le Pera
Toni Servillo

«L’intelligenza di un attore sta nel cogliere la sensibilità del regista».
Mario mi ripeteva spesso questa frase durante le prove de Le false confidenze di Marivaux. Dietro questa semplice frase, che può apparire il sintomo di una preoccupata diligenza, si nascondono secondo me molte sue genialità, innanzitutto umane.
Mario era teso all’inizio delle prove, temeva un repertorio che non gli era abituale, addirittura mi disse che non parlava in italiano.
Mario era indifferente o forse addirittura ignaro del suo talento, ma, con quella frase, stabiliva il suo metodo d’approccio a una nuova avventura teatrale, marcando il territorio come un animale, rivendicando all’attore l’intelligenza del capire, l’autonomia delle scoperte, la scommessa dei mille percorsi e tentativi per avvicinare il personaggio, consegnando così alla sensibilità del regista – sensibilità intesa come capacità di creare situazioni – relazioni vive all’interno di un testo, la responsabilità di creare quel luogo nel quale lui potesse poi portare a spasso, con rara naturalezza, il suo talento, la sua arte antica.

Lettere a Mario Toni Servillo
Lina Wertmüller

Che potenza doveva mai aver quel bis-bisnonno per trasmettere geni così carichi d’arte, di teatro, di allegria, di humor ai suoi eredi! Mario ne aveva tutti i segni.
Con lui è stato amore a prima vista. Un’istintiva irresistibile simpatia. Quel suo viso ovale ornato dal naso significativo e peperonesco, quei suoi occhi ridenti, i neri serpentelli dei capelli da scugnizzo, e il corpo… Un corpo classico da teatro. Da sempre i grandi attori italiani, fin dai tempi della commedia dell’arte, avevano quel tipo di corpo lì, come quello di Mario: piccolo, ma forte, gambe un po’ corte, di dietro possente, come appunto le antiche stampe ci rappresentavano Arlecchino.
Molto probabilmente, sotto i bianchi, larghi costumi, anche Pulcinella aveva quel tipo di corpo. Da Teatrante. Un bel pezzo di Teatro, Mario Scarpetta. A differenza di Eduardo e di Luca, con la loro bivalenza drammatica e comica Mario era della dinastia di Peppino, con una vis comica naturale e popolare straordinaria.
Genio e sregolatezza, perché Mario abusava di questi suoi talenti e si lasciava sedurre dai mille richiami sciagurati della vita. Era carnale e godereccio, totalmente dionisiaco, un piccolo grande Dioniso napoletano, con tutti i suoi eccessi.
Con lui ho fatto cinque titoli: Fatto di sangue fra due uomini a causa di una vedova, con la Loren, Mastroianni e Giannini; La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia, con Candice Bergen e Giannini; Sotto sotto…, con Enrico Montesano e Veronica Lario; Complicato intrigo di donne, vicoli e delitti, con Angela Molina, Harvey Keitel, Paco Rabal e Isa Danieli; Sabato, Domenica e Lunedì, anche questo con Sofia Loren, Luca De Filippo e una bellissima troupe di attori.
Inoltre Mario mi ha fatto da aiuto regista in teatro e in cinema, era bravo essendo regista egli stesso – come dicevo – un pezzo di teatro.
Un’altra bellissima interpretazione di Mario fu quella dello psicanalista nella mia commedia L’Esibizionista, con Luca De Filippo e Athina Cenci.
Insomma, non voglio fare l’elenco delle tante cose belle che Mario ha fatto con me e neanche testimoniare che buco nero ha lasciato nel mio cuore la sua assenza e quanto manca al suo pubblico che lo amava. Però penso che un attore bravo come lui, erede come ho detto di Peppino, meritava molto molto di più di quanto non abbia avuto il tempo di darci.
Un altro scrigno dell’alta tradizione del Teatro di Napoli che purtroppo con lui è andata perduta.

Lettere a Mario Lina Wertmüller
Lettere a Mario Lina Wertmüller
Gianni Pinto

Conobbi Mario nel settembre del 1979 al Maschio Angioino, nel “cuore” dell’Estate a Napoli.
In quella occasione era impegnato in un bel lavoro di Raffaele Viviani, Festa di Piedigrotta, allestito da Roberto De Simone e Mario mi annunciò che avrebbe dato vita a una sua compagnia teatrale, dopo aver fatto esperienza nella compagnia di Eduardo per circa quattro anni.
E così, nella stagione 1979/1980, Mario allestì la sua prima Scarpettiana al teatro Cilea di Napoli, con Dolores Palumbo, Geppino Anatrelli, Tullio Del Matto, etc..
Da quel momento iniziai una collaborazione con Mario, durata oltre 20 anni.
Mario si mostrò sorpreso di questo mio interesse per il teatro scarpettiano: «Ho sempre pensato che questo teatro fosse lontano dai tuoi pensieri. Ti vedo impegnato con programmi dell’Estate a Napoli che sono agli antipodi del mio teatro». Così mi disse Mario e io, in risposta: « stiamo tentando di portare finalmente a Napoli tutta una serie di spettacoli che prima si fermavano a Roma; questo non significa che non abbiamo amore per il nostro teatro di tradizione».
E così iniziò questo percorso attraversando i lavori noti del bisnonno Eduardo, ma anche quelli meno noti come Il testamento di Parasacco, L’amico di papà, Nu brutto difetto, Mettiteve a fa’ ammore cu me, Felice sposo, Feliciello e Felicella, etc..
E al compiacimento di Mario di aver trovato un impresario disponibile a mettere in scena anche titoli poco noti di Scarpetta gli rispondevo che, nella ricerca e valorizzazione del teatro di Scarpetta, bisognava scegliere anche questa strada più difficile e rischiosa e chi se non Mario poteva mettere in scena e recitare questi lavori sconosciuti al grande pubblico?
Ma Mario poi ogni tanto si allontanava dal “teatro di famiglia”(Scarpetta, Eduardo, Peppino) per cimentarsi – e sempre con grande successo – con testi di Raffaele Viviani, Santanelli, Satta Flores, Beckett, Marivaux, Marotta, De Simone, Curcio, Wertmüller, Mario Scarpetta, etc., per poi “ritornare” all’antico amore: il teatro di Eduardo Scarpetta.
Mario ha dato tanto sulle scene, ma ha ricevuto poco: meritava molto di più in vita e non poco abbiamo lottato insieme in questi venti anni per questo obbiettivo, anche e soprattutto nella nostra Napoli, dove “avrebbe dovuto ricevere”, quale degno erede di una grande famiglia di teatro, i giusti riconoscimenti per il suo lavoro e una maggiore attenzione da parte di tutti.
Ciao Mario, ti ricorderò sempre e porterò sempre nel mio cuore questa grande “camminata a due”, ma soprattutto ti ricorderanno i tuoi spettatori, ai quali dicevi alla fine di ogni recita: «speriamo che questo rispettabile pubblico si sia divertito!».