la famiglia Scarpetta
È difficile parlare con semplicità della famiglia di Eduardo Scarpetta per le tantissime chiacchiere, malignità e pettegolezzi proliferati a giusta causa e non attorno alla sua vita privata.
È certo che egli non fece nulla per cercare di impedire o quanto meno arginare la marea di voci che circolavano sul suo conto; certamente erano altri tempi ed esistevano altri modi di leggere i comportamenti privati di un personaggio noto, anzi stranoto. Così se per un verso erano conosciute nel silenzio le sue paternità extraconiugali, queste erano taciute in pubblico per una sorta di rispetto reverenziale nei confronti del personaggio beniamino delle platee; o ancora erano, in qualche caso, motivo di dileggio più o meno cattivo, come quando, rimbeccato al teatro Sannazzaro da uno spettatore che gridò al suo indirizzo: «Scarpe’, tiene ‘e ccorna!», egli rispose con tutta calma: «… Sì, ma ‘e mmie so’ reali!”.
Eduardo Scarpetta sposò nel 1876 Rosa De Filippo, figlia di un modesto commerciante napoletano. Da questo matrimonio nasce Domenico, figlio “settimino”, nato cioè di sette mesi, perché pare che fosse stato concepito da una relazione che Rosa aveva avuto con Vittorio Emanuele II.
È chiaro che nulla di ufficiale si poteva e si può affermare riguardo questo episodio, ma la grandissima somiglianza di Domenico con la discendenza Savoia, il tacito divieto a calcare le tavole di un palcoscenico, imposto al ragazzo, una sorta di appannaggio mensile assegnato alla famiglia Scarpetta lasciano pochi dubbi sulla vera paternità.
Così Vincenzo, il primo e unico figlio avuto dalla moglie, nasce nel 1878 e sarà lui a ereditare la passione o meglio il compito di portare avanti il discorso teatrale del padre, ma questa è cosa altra.
Unico figlio per due motivi: il primo perché un altro figlio, un piccolo Eduardo, detto Bebè, morì piccolissimo a causa di una tubercolosi intestinale e il secondo perché l’altra figlia, Maria, nacque da una relazione che Eduardo Scarpetta ebbe con tal Francesca Giannetti.
In un primo tempo la bambina rimase con la madre naturale la quale però, o per evidenti difficoltà economiche o per tentare di ottenere del denaro, forse ricattando sentimentalmente Eduardo Scarpetta, in un secondo tempo la affidò all’istituto della Nunziata, da dove Eduardo Scarpetta la rilevò avviando allo stesso tempo un procedimento di adozione che si risolse positivamente.
Domenico, Vincenzo e Maria sono così gli unici a portare il cognome paterno.
Ma certamente la paternità più famosa è quella di Titina, Eduardo e Peppino De Filippo. I tre presero il cognome della madre Luisa, nipote di Rosa in quanto figlia di suo fratello Luca.
Oltre questi tre De Filippo ve ne erano altri due: un altro Eduardo, che in arte si farà chiamare Eduardo Passarelli, e Pasquale, figli di una sorellastra di Rosa, Anna, nata dal secondo matrimonio del padre di Rosa, appunto Pasquale De Filippo.
Così Vincenzo, il primo e unico figlio avuto dalla moglie, nasce nel 1878 e sarà lui a ereditare la passione o meglio il compito di portare avanti il discorso teatrale del padre, ma questa è cosa altra.
Unico figlio per due motivi: il primo perché un altro figlio, un piccolo Eduardo, detto Bebè, morì piccolissimo a causa di una tubercolosi intestinale e il secondo perché l’altra figlia, Maria, nacque da una relazione che Eduardo Scarpetta ebbe con tal Francesca Giannetti.
In un primo tempo la bambina rimase con la madre naturale la quale però, o per evidenti difficoltà economiche o per tentare di ottenere del denaro, forse ricattando sentimentalmente Eduardo Scarpetta, in un secondo tempo la affidò all’istituto della Nunziata, da dove Eduardo Scarpetta la rilevò avviando allo stesso tempo un procedimento di adozione che si risolse positivamente.
Domenico, Vincenzo e Maria sono così gli unici a portare il cognome paterno.
Ma certamente la paternità più famosa è quella di Titina, Eduardo e Peppino De Filippo. I tre presero il cognome della madre Luisa, nipote di Rosa in quanto figlia di suo fratello Luca.
Oltre questi tre De Filippo ve ne erano altri due: un altro Eduardo, che in arte si farà chiamare Eduardo Passarelli, e Pasquale, figli di una sorellastra di Rosa, Anna, nata dal secondo matrimonio del padre di Rosa, appunto Pasquale De Filippo.
È evidente che esistessero tutti gli elementi giusti per far proliferare chiacchiere e malignità di ogni genere su di una situazione familiare così ingarbugliata, e se all’esterno quel tipo di considerazioni si limitavano a essere sussurrate o bisbigliate, nell’àmbito familiare erano tacitamente accettate.
Non si vuole certamente giudicare il comportamento etico di Eduardo Scarpetta, ma bisogna pur dire che certi fatti che oggi sono all’ordine del giorno grazie all’emancipazione da un conformismo ipocrita, all’epoca si cercava di tenerli chiusi tra le mura del “palazzo”. E sarebbe riduttivo, se non gratuito, descrivere Eduardo Scarpetta come un uomo dalla sessualità morbosa.
Questo purtroppo è avvenuto ed egli è stato più volte descritto come uomo peccaminoso e immorale; ma è disonesto citare (come è avvenuto) episodi che
gli unici eventuali testimoni non potevano né smentire né confermare in quanto defunti. Quel che è certo è che Eduardo Scarpetta non fece mancare nulla di ciò che poteva servire alla crescita e alla educazione di tutta la sua prole; a quanto è dato sapere poi, la stessa donna Rosa nutriva un affetto quasi materno per tutti quei piccoli figliastri e, se non bastasse, si pensi alla stima e all’affetto che Vincenzo aveva nei loro confronti.
Una curiosità in ultimo: tutti questi figli, per il fatto di essere illegittimi, non potevano chiamare Eduardo Scarpetta papà, e allora fu loro detto di chiamarlo «zio», come testimoniano alcune lettere-poesie che questi scrisse loro.
gli Eduardo secondo Mario
intervista rilasciata da Mario Scarpetta al Centro teatro ateneo (Cta) dell’università la Sapienza di Roma
Comincerò col parlare del personaggio, creato da Antonio Petito, di Felice Sciosciammocca: racconterò come nasce, come diventa, come vive.
Sciosciammocca in napoletano significa l’allocco, uno che sta cosi, con la bocca aperta, come un ingenuo. Con Eduardo Scarpetta questo personaggio di allocco, di ingenuo, si evolve e diventa invece un personaggio che fa parte della borghesia napoletana: Borghesia napoletana che nel 1850 – ‘60 cominciava a prendere piede dopo che Napoli non era più capitale di un regno.
Eduardo Scarpetta ha avuto, secondo me, il merito di elaborare, di ingrandire, di ingigantire questi aspetti del personaggio, Felice Sciosciammocca, riuscendo a introdurlo in un certo tipo di società e facendolo diventare un personaggio a se stante.
Questo personaggio ha influenzato moltissimo la fine dell’Ottocento teatrale napoletano, tanto da interessare Eduardo De Filippo, Peppino De Filippo, Raffaele Viviani: è diventato un personaggio a tutto tondo e sono tantissime le commedie attraverso le quali è possibile seguire l’evoluzione del personaggio di Felice Sciosciammocca.
Vincenzo Scarpetta, mio nonno, ereditò questo personaggio dal padre Eduardo Scarpetta e subì molto questa supremazia del padre, che era stato veramente un grande, e fu quasi costretto – psicologicamente non materialmente – a continuare questa dinastia teatrale. Se io dico che non era all’altezza non voglio sminuire il lavoro e l’opera di mio nonno, ma mio nonno voleva fare altre cose: mio nonno voleva essere un compositore; mio nonno si innamorò perdutamente di una soubrette francese che era Eugenie Fugier e il bisnonno gli disse: «Se ti sposi e vai a Parigi io moro». E mio nonno non sposò questa Eugenie Fugier.
Ci sono un sacco di lavori teatrali del nonno con le sue musiche. Il nonno componeva le musiche per le commedie del padre.
C’è un episodio, riguardo a questa passione musicale di mio nonno Vincenzo, che mi ha raccontato Eduardo De Filippo. Allora il nonno scrisse la parodia de La donna è mobile e la Siae – la società degli autori che più o meno nasceva allora: stiamo parlando del 1911 o di qualcosa del genere – aveva come regola che superate le sette note era plagio. Allora vennero in teatro questi della Siae per controllare se c’era plagio e c’era un pezzo di questa Donna immobile che faceva: «La donna immobile qual piuma al seno»… Insomma, questi della Siae giù in sala ascoltavano la musica e contavano sulle dita il numero delle note.
E allora il nonno quando seppe questa notizia cambiò ogni settima nota e così non era plagio. Ecco perché dico che la passione di mio nonno era la musica. Io ho su a casa il suo pianoforte.
Il nonno in Santarella suonava il pianoforte perché doveva doppiare l’organo che c’era in scena. Poi è stato anche, diciamo così, il creatore, professionalmente di Eduardo. Perché Eduardo ha scritto per lui: per lui e per la compagnia nella quale lavorava. Eduardo era l’attore più pagato della compagnia di Vincenzo Scarpetta e ha scritto per lui, per la compagnia, commedie come Ditegli sempre di sì, Uomo e galantuomo. Peppino mi pare scrisse Non è vero ma ci credo con Titina, ma per il nonno.
Eduardo non aveva assolutamente rancore o remora a dire «mio fratello Vincenzo». Vincenzo è quello che l’ha formato professionalmente. Il nome «direttore», che è quello che Eduardo aveva scritto fuori della porta del suo camerino, e come tutti quanti gli attori delle sue compagnie lo hanno sempre chiamato, è un nome che deriva dal fratello, da mio nonno.
Mio nonno aveva l’abitudine di mettere un registro fuori del teatro, all’ingresso del teatro, che veniva tolto quando il direttore di scena dava la mezz’ora. Se alla mezz’ora non c’era il nome di un attore che doveva stare in teatro, veniva multato.
Quando sono entrato in compagnia con Eduardo al teatro Eliseo, mi sono ritrovato questo registro davanti e ho chiesto: «Ma che è ‘sta cosa?». «Il Direttore vuole che si faccia così». E quindi penso che il legame che c’è stato fra Eduardo e mio nonno sia stato molto, molto, molto, molto profondo.
Ma, torniamo a Felice Sciosciammocca che, in un certo senso, sostituisce nei consumi del teatro popolare il personaggio di Pulcinella, anche se c’è qualcosa che cambia e che caratterizza in modo proprio il personaggio di Felice Sciosciammocca.
Innanzitutto, la gestualità di Felice Sciosciammocca è una gestualità molto più contenuta. Pulcinella – a parte le sue origini popolari antiche e via dicendo – infatti vive, nasce e cresce in un’epoca in cui la gestualità era accentuata: era, non voglio dire esasperata, non voglio usare un termine negativo, però era eccessiva. Felice Sciosciammocca, invece, esce dal teatro popolare, dalla Commedia dell’arte e cresce in un àmbito borghese.
Il suo gesto allora si fa più contenuto, si fa più misurato. Non si indica più violentemente: «lì» (con enfasi), ma si dice «lì» (con fare pacato), non si fa più così [mostra un esempio di gestualità], si fa così [mostra un altro esempio contrapposto al precedente]. Perché il gesto si commisura a quello che la società diventa.
La società si comprime, si compatta in se stessa e per cui anche il gesto diventa più limitato, più contenuto, più misurato. Questa maniera di vivere ha comportato un cambiamento di gestualità negli autori susseguenti. Un guappo di Viviani fa così [mostra il modo]. Quando io in Uomo e galantuomo, che ho fatto in televisione con Eduardo, interpretavo la parte del guappo, di don Salvatore, Eduardo perse, purtroppo, un sacco di tempo per farmi capire come un guappo dell’epoca, 1920, si toglieva il cappello. Allora i guappi dell’epoca – mi disse Eduardo – avevano un cappello tipo borsalino con una spilla da balia qui [indica la fronte], in modo che facesse un triangolo, perché si dovevano infilare le tre dita così [mostra il modo], per far così [mostra il modo].
Queste sono state lezioni di gestualità, per me, importantissime. Eduardo era una persona, un direttore che in teatro ti faceva capire pure come dovevi mettere i piedi.
Certe volte, mentre recitavi con lui, ti guardava le scarpe perché magari ne avevi una lucida e una no. E allora tu in scena rimanevi stupito a chiederti: «Che sta facenno? che cos’è? perché mi guarda le scarpe?». Poi andavi in camerino e realizzavi che avevi una scarpa lucida e una pulita. Queste per me sono state grandissime lezioni di teatro.
Poi Eduardo – checché se ne dica – era una persona splendida fuori dal teatro. Sul teatro era un direttore rigido, come si deve essere, ma fuori dal teatro era una persona amabile. Io ho trascorso delle giornate a casa sua a via Aquileia a Roma, a pranzo e dopo pranzo, dove mi ha raccontato tutta la storia della famiglia Scarpetta. Mi raccontò di un episodio di lui bambino a Firenze, quando erano in un residence lui, il padre Eduardo Scarpetta e donna Rosa De Filippo, la moglie di Eduardo Scarpetta. E lui correndo, fece cadere un oggetto dal tavolino e il bisnonno, il padre vale a dire, gli dette uno schiaffo terribile e lui andò a sbattere con la testa vicino allo spigolo di un pianoforte che c’era in questo residence e si mise a piangere. Venne fuori donna Rosa De Filippo, prese questo bambino, che lei sapeva non essere suo figlio ma il figlio del marito, e disse al marito «Tu non glieli devi dare gli schiaffi, hai capito?!». Ed Eduardo, raccontandomi questa cosa, si mise a piangere. Forse sono uno dei pochi che ha visto Eduardo De Filippo piangere, però questo dimostra quanto bello, grande e umano fosse Eduardo fuori dalla scena.
In scena Eduardo era severo, come lo era Eduardo Scarpetta: una persona molto dura, molto rigida. Credo che sia Eduardo che mio nonno abbiano ereditato e assunto da lui questo tipo di atteggiamento, che poi è sacrosanto e giusto, perché così si deve fare in teatro.
Ma Eduardo, per esempio, mi ha raccontato che Eduardo Scarpetta era una persona che oltre la rigidezza voleva una certa scioltezza in teatro. E allora qualche volta si divertiva a far ridere gli attori in scena, così come faceva Eduardo, ed è capitato a me ne Gli esami non finiscono mai, Uomo e galantuomo, Le bugie con le gambe lunghe.
Eduardo mi raccontò anche di quest’episodio di Eduardo Scarpetta che faceva recitare il suo cameriere, Milone, così si chiamava. Milone, ovviamente, faceva una comparsa e c’era questa scena in cui doveva stare fermo lì, sotto la porta, con un’alabarda in mano, serissimo. Allora Eduardo Scarpetta – mi diceva Eduardo – cominciò a fare delle cose per far ridere. Tutti gli attori ridevano, sorridevano, insomma non era una cosa esagerata, si stavano divertendo perché mio nonno li faceva divertire e Milone, invece, doveva restare immobile, fermo. Il bisnonno andò sotto a Milone, lo prese per la collottola e gli disse: «E ridi, ridi!». E Milone fece: «Eh! Eh! Eh!»
Oppure mi ricordo di come Eduardo voleva farci ridere in scena ne Gli esami non finiscono mai, al terzo atto, quando Guglielmo Speranza non parla più e a un certo punto deve farsi la barba. Allora noi tutti quanti eravamo disposti spalle al pubblico e lui era l’unico di faccia perché era sulla poltrona. C’era il personaggio che faceva il barbiere, che faceva finta di insaponarlo e poi faceva finta di raderlo. E lui faceva queste cose [mostra delle smorfie], ma senza parlare. Approfittava di questi momenti e noi facevamo con le spalle così [le muove] perché ridevamo come matti.
Oppure in Uomo e galantuomo, in una scena famosissima col suggeritore, che era Gennarino Palumbo, dato che lì è tutto quasi a soggetto, lui si inventava delle cose. Per esempio, a un certo punto, un punto in cui il suggeritore dice: «Dopp’ ‘a mort’ ‘e pateto». Eduardo piglia e fa: «Dopp’ ‘a porta». Era una cosa che non era stata provata, «dopp’ ‘a porta», e allora Gennarino dice «No: dopp’ ‘a morte… che nce sta dopp’ ‘a porta? Niente!», come dopo la porta non ci sta niente, ci deve stare qualcosa dopo una porta. E il cameraman cominciò a fare con la telecamera così perché stava ridendo lui, il giraffista. Ecco, questi erano i momenti più belli – a parte poi i momenti d’arte di Eduardo – i momenti in cui uno si scioglieva con Eduardo.
Volete sapere qualcosa della storia di questo palazzo del mio bisnonno in cui io abito?
Dunque, questo palazzo viene chiamato ancora palazzo Scarpetta, ma in realtà non è più tutto degli Scarpetta e il bisnonno se lo fece costruire con i proventi della commedia Na santarella. Però Na Santarella chiamò la villa che si fece costruire al Vomero, quando il Vomero era ancòra campagna. E la moglie, donna Rosa De Filippo, aveva paura a restare da sola lì di notte.
Ora non le trovo, ma ho visto delle fotografie dove la strada davanti a questa villa Santarella era proprio una strada di campagna, sterrata. Ma questo palazzo invece se l’è fatto costruire con i proventi appunto della commedia Na santarella. Difatti ha fatto mettere nell’androne del palazzo i tre personaggi principali della commedia, tre statue, che sono una don Felice, che è lui, donna Rachele, la superiora del convento che era Rosa Gagliardi, e Santarella proprio all’inizio delle scale a fianco all’ascensore, che era Marietta Gaudiosi. Quindi in effetti villa Santarella doveva essere questa, se fosse stata una villa, però dato che all’epoca – beat’a isso – il bisnonno aveva tanti soldi, la villa se la fece al Vomero e la chiamò palazzo Scarpetta.
Lui aveva tra l’altro un biglietto da visita, perché aveva anche una casa a Roma, in cui c’era scritto: «gran. uff. cav. Eduardo Scarpetta, Roma via Belsiana 60», «Napoli Palazzo proprio»: si nu steve bene isso?!
Dunque, oltre il palazzo Scarpetta, chiamato così, aveva questa villa Santarella che si costruì proprio per stare un po’ isolato.
Da quello che io ho potuto leggere tra le sue lettere e nei libri delle sue memorie, lui è sempre stato una persona sempre molto distaccata dal mondo dello spettacolo, del teatro, dal mondo della critica, dei giornali.
Ci sono delle sue notazioni sui critici dell’epoca. Poi ebbe questo famoso scandalo de Il Figlio di Iorio, la causa con D’Annunzio: lo attaccarono duramente. E allora quando si fece costruire questa villa su al Vomero, il famoso «commò sott’e ‘ngoppa», sottosopra, perché c’ha quattro torrette e sembra veramente un comò rovesciato, dove lui andava e stava in grazia ‘e Dio, fece scrivere – c’è ancora scritto – «Qui rido io».
Qui, in questa casa dove ci troviamo ora, ci sono molte foto. Ve le descrivo un po’.
Questa è mia nonna con mio padre: così si abbigliavano all’epoca i bambini. A me hanno detto che era mio padre, io pensavo che fosse una zia piccola.
Questa è donna Amelia Bottone.
Qui invece c’è il bisnonno Antonio Scarpetta, con il nonno in una foto di posa. Ci tengo a far notare che per fare questo tipo di fotografia all’epoca bisognava restare fermi in posa, perché c’erano le lastre.
Questi invece sono mio nonno Vincenzo con suo figlio, mio padre Eduardo. C’è una fantasia di nomi in questa famiglia enorme: Eduardo, Vincenzo, Vincenzo, Eduardo, anche mio figlio si chiama Eduardo!
Questa qui, invece, è la maschera in gesso del bisnonno di Eduardo Scarpetta fatta su cadavere; e la cosa che più mi ha colpito è che – certamente sarà dettata dall’ictus – lui, che ha fatto ridere per tutta la sua vita, è morto, come si dice a Napoli, «co’ pizz’ ‘a riso!»
Lì sotto ci sono quasi tutti i suoi manoscritti.
Poi c’è questa cosa bellissima che è una radice che usava donna Rosa De Filippo quando rimaneva da sola su a villa Santarella. E dato che aveva paura girava per casa con questa cosa che onestamente è una mazza, una mazza veramente può ciaccare. E donna Rosa De Filippo è quella che vedete nel quadro.
Questa, invece, è la scrivania dove Eduardo Scarpetta ha scritto – penso – gran parte dei suoi lavori. Era su a villa Santarella; poi, quando vendette, venne qui a palazzo Scarpetta.
Questo è uno dei tanti manoscritti del bisnonno che noi conserviamo. Questo è particolare perché è Il figlio di Iorio, quello che gli causò tanti guai, tanti pasticci, tanti fastidi che, ecco, è stato scritto Vomero, villa Santarella, luglio-agosto 1904. Ma la cosa più interessante è che qui, alla fine, lui scrive «Deo gratias, 27 luglio – 13 agosto, diciotto giorni di lavoro assiduo spero a Dio che non mettesse in testa a D’Annunzio di venire a rompere le uova nel paniere. Scarpetta».
Questa era la mentalità del bisnonno, si divertiva. Poi D’Annunzio gliele venne a rompere le uova nel paniere, ma le uova non si ruppero.
Qui ci stanno due fotografie con dedica al nonno però: una che è di Umberto di Savoia, Umberto II, e l’altra la moglie Maria José, perché erano assidui al teatro Nuovo quando il nonno recitava al teatro Nuovo e c’era anche Eduardo. Loro avevano un palco specifico dove dovevano essere autoritratti. E per questo le corna del mio bisnonno erano reali!